Genova, 04/01/2017.
Torna in scena il 13 e 14 gennaio 2017, all'Altrove - Teatro della Maddalena, lo spettacolo La terza onda. Frutto di un percorso laboratoriale condotto da Elena Dragonetti al Teatro dell'Archivolto nel 2016, questo lavoro e la sua ripresa offrono l'occasione per ripercorrere le tappe di questo progetto che prevede di lasciare agli adolescenti il compito di rappresentare i propri coetanei a teatro. Senza contare che l'esperienza del laboratorio con adolescenti è già alla fase due, per così dire, e quest'anno si intitola Come pesci in un acquario a partire da Submarine, il romanzo dello scrittore gallese Joe Dunthorne diventato film di successo nel 2010 nella versione di Richard Ayoade che ne ha adattato il testo e curato la regia.
L'anno scorso la proposta partiva dalla voglia di Dragonetti e Tagliabue di portare in scena La terza onda «inserendo i ragazzi in un percorso professionale - spiega Dragonetti - ovvero in cui si trovino a recitare insieme ad attori professionisti, in cui facciano le prove proprio come i professionisti (nell'ultimo mese) e per cui siano inclusi nel cartellone ufficiale con uno spettacolo di produzione». L'esperimento ha funzionato e così due attori professionisti e 17 ragazzi e ragazze tra i 16 e i 17 anni sono andati in scena per tre repliche serali e tre matinée al Modena. «Mi sembrava bello che la parte dei ragazzi di 16/17 anni la facessero loro e non attori di vent'anni. I ragazzi sono portatori sani di quei personaggi: una storia vera, solo successivamente divenuta un film. È chiaro che dovevano fare un percorso per acquisire il linguaggio e la disciplina teatrale, per imparare a stare in scena, ma alcuni aspetti della caratterizzazione erano per loro del tutto naturali».
Dal punto di vista dell'educazione teatrale «sono stati allenati a essere vivi e presenti in scena e non solo a ripetere quanto deciso a priori. Il che non significa che si tratti di uno spettacolo improvvisato. La struttura c'è, ma loro devono poter e saper reagire, saper costruire una risposta teatrale». L'inizio è stato morbido, una/due volte la settimana per impostare la dimensione «dello stare in scena, dell'essere in relazione tra loro con onestà e, al contempo, in grado di riconoscere i meccanismi della finzione, per creare un gioco vero che non perdesse in magia».
Quanto è contato insegnare loro la tecnica della recitazione? «Sono stati accompagnati a gestire delle piccole parti di tecnica, ma questo è arrivato dopo, perché funzionale a non dimenticare parole, a mettere insieme il corpo e la voce. La parte più corposa è stata quella per farli entrare dentro la vicenda e metterli in condizione di raccontare ciò che i loro coetanei hanno realmente vissuto. È stato un passaggio anche metateatrale piuttosto delicato, in cui io come regista chiedevo loro disciplina, dedizione, partecipazione e di vestire in un certo modo: insomma io ero come il professore di storia americano che aveva lanciato l'idea di un movimento sociale, in una forma di didattica sperimentale che aiutasse i suoi studenti a capire il nazismo e la vasta adesione di una vastissima parte del popolo tedesco. Com'è noto dal film, la cosa sfuggì presto di mano a Ron Jones diventando un caso. Ci sono stati meccanismi molto pericolosi che si sono innescati anche nella nostra esperienza. In un paio di occasioni abbiamo proprio dovuto riportare i ragazzi alla realtà del progetto teatrale».
In questa ripresa il cast è lo stesso? «È cambiato l'attore che interpreta il professore: era Daniele Natali, questa volta sarà Carlo Orlando. I ragazzi, sono in parte gli stessi, mentre tre sono quelli del nuovo gruppo del laboratorio di quest'anno. Con il nuovo interprete, c'è stata la necessità di una ripresa anche del testo. La consapevolezza tra i ragazzi però questa volta era completamente diversa, insomma abbiamo assistito a un'evoluzione che da un lato conferma la bontà pedagogica del progetto, ma a livello teatrale abbiamo, paradossalmente, dovuto lavorare al recupero di quella semplicità da cui erano partiti, abbiamo dovuto farli tornare a essere se stessi».
Da dove eravate partiti? «L'anno scorso sono arrivati completamente a digiuno: di teatro e di una colpevolezza socio-politica. Mentre leggevamo il testo chiedevamo il loro intervento e una parte delle loro risposte sono entrate nella drammaturgia. Siamo partiti da una loro visione semplicistica dove bene e male e buoni e cattivi sono separati da una linea netta, quindi isolarli è semplice e punire altrettanto facile. Non c'era alcuna riflessione sulla complessità della colpa. Allora abbiamo proposto la riflessione della Arendt su Eichmann, uno che non era Hitler, non incarnava il male, ma era piuttosto un burocrate, un uomo estremamente normale. Piano piano hanno raggiunto la capacità di farsi delle domande: quella più centrale: "cosa avresti fatto tu in un contesto simile?". All'inizio le risposte erano: "mi sarei scontrato fino alla morte"; oppure "mi sarei suicidato". Nessuno ha ammesso che, "sì, forse sì, avrei agito così anch'io". Il percorso è servito a capire che nessuno di noi sarebbe stato fuori pericolo in un simile contesto e il finale lascia aperta la possibilità di sfuggire a un destino simile».
Quest'anno si sono ribaltate le priorità. Non c'era più l'idea di un testo forte in cui gli adolescenti dovessero essere di necessità protagonisti, ma piuttosto «volevamo proseguire con questa formula perché i/le ragazzi/e si sono dedicati/e moltissimo a questo lavoro, dimostrando costanza, tenacia, determinazione e grandi capacità per cui volevamo premiarne altri/e. Molti provenivano da scuole professionali, che prevedono anche i tirocini lavorativi, ma non hanno mai mollato. I primi tempi arrivavano con mezz'ora di ritardo, li trovavo fuori a fumare. Alla fine il teatro era diventato una casa per loro. Arrivavano un'ora prima. Li trovavo sul divano dell'Archivolto: "Non sapevamo dove andare, siamo venuti qua". Mangiavano o si riposavano lì. Questo ha convinto me e Pina Rando a riproporre il modello di lavoro».
Questa volta si entra proprio in quell'immaginario nebuloso e un po' tragi-comico-fantastico che è tipico dell'adolescenza. Più facile? O più difficile lavorare su questo testo? «Decisamente più difficile trasporre teatralmente la visionarietà di questa età. Mentre per La terza onda partivano da se stessi, dal contesto della classe che è familiare, e la parte difficile era comprendere il percorso dei personaggi, qui si va alla ricerca di un linguaggio che appartiene al loro vissuto ma che non sono abituati ad agire e a vivere consapevolmente. Bisogna allenarli ad essere dentro quel linguaggio, a guardarsi da fuori, a trasformare le sensazioni in azioni, rendendole concrete e facendole diventare scene».
Se ne La terza onda siete ricorse alla Arendt, qui che strategia state utilizzando? «Stiamo lavorando molto sul linguaggio non verbale, sul mezzo cinematografico, sull'espressività del corpo, in collaborazione con la coreografa Serena Loprevite, che già ci aveva aiutato in alcuni momenti lo scorso anno».
Chi saranno i professionisti in scena per Come pesci in un acquario? «Non ho ancora definito: ci sono in ballo tre ruoli, mentre i/le ragazzi/e sono una decina». Qualcuno dell'anno scorso? «Sì, tre hanno proseguito. Gli altri sono nuovi. Interessante inserire i nuovi, tre, si sono immediatamente ambientati e sono stati accolti molto bene». Questo nuovo lavoro andrà in scena? «Siamo già in cartellone, all'Archivolto, a marzo, il 9 e 10».
E de La terza onda dopo questa ripresa che ne sarà? «Ci piacerebbe esportare il progetto in altre città inserendo altri ragazzi di città in città, proporre il percorso per lanciare uno spunto di riflessione sul tema. Ce l'hanno chiesto per un festival a Bergamo. Si tratterebbe di un mese di laboratorio, separando un po' le settimane di lavoro, per poi avere due settimane intensive prima dello spettacolo. Un percorso pedagogico tra scuole e teatri, su cui volendo possono lavorare anche gli insegnanti».
Di Laura Santini