Genova, 03/04/2017.
Fernando, così ho chiamato il mio topo, doveva essere anche lui un emarginato, e vivere nei ricordi di una gioventù spensierata e trascorsa all’ombra del coetaneo Pepe, che era già popolare fin da allora. Fernando accetta l’incarico che gli offre una madre e si mette sulle tracce del figlio scomparso.
Costui si chiama Rudy, di professione fa il wood runner, cercatore di legname, è malato, sta mutando, e probabilmente non fa più parte da tempo della comunità topesca sotterranea, ma è emerso attraverso gli sfiatatoi.
Marco D’Aponte, l’amico disegnatore col quale avevo già collaborato in diverse occasioni, lesse il racconto, gli piacque e cominciò a ragionarci come fanno i disegnatori, con la matita.
(Marino Magliani)
Dalla prefazione di La ricerda del legname (Tunué, 112 pp, 14.90 euro)
Una storia, un racconto a fumetti, nata dalla suggestione ricevuta durante la traduzione delle opere di Bolaño, scrittore e saggista cileno. Così Marino Magliani parla della storia del topo detective e della sua indagine tra i borghi liguri.
Il ricorso allegorico alla figura del topo per raccontare vizi e virtù della natura umana è un elemento classico della narrativa. Se i riferimenti classici non mancano - Esopo ma non solo - il maggior riferimento per la letteratura illustrata è sicuramente in Maus, il capolavoro di Art Spiegelman con il quale il premio Pulitzer statunitense ha raccontato l’olocausto utilizzando i roditori come elemento iconografico. Un capolavoro.
Con La ricerca del legname, volume edito da Tunué la cui uscita prevista è a maggio, Marino Magliani parte da un racconto incentrato su un topo chiamato a indagare sull’origine di alcuni assassini all’interno del branco – un’anomalia per animali dal forte istinto verso la coesione sociale – per costruire una società di topi strutturata in modo rigido e dalla quale uno di loro, Rudy, fugge alla ricerca di una nuova dimensione personale, per seguire un istinto incomprensibile per i topi e che dai suoi pari è bollato come patologico.
Fernando è un ex poliziotto divenuto detective; è costretto a vivere sotto l’ombra ingombrante di El Tira, una vera celebrità per tutte le colonie di topi, e che accetta di indagare sul caso della sparizione di Rudy per empatia verso la madre del fuggitivo, ma anche perché sospeso tra la voglia di affrancarsi e la necessità di vivere lui stesso un’avventura che contempli l’osservazione del mondo di fuori.
L’autore, coadiuvato dal suo sodale Marco D’Aponte, con il quale aveva già pubblicato un tributo a fumetti del romanzo di Tabucchi Sostiene Pereira, costruisce un mondo a misura di topo nel quale, pur restando decisa la componente allegorica, rimane anche fedele all’impronta voluta per il racconto.
Quello che emerge, quindi, non è un racconto romantico alla Ratatouille, il lungometraggio targato Pixar, ma una storia estremamente cupa nella quale non mancano cinismo, opportunismo, ma anche il senso di amoralità animale uniti a una buona quantità di avventura.
Il tratto di D’Aponte si presenta essenziale, scarno eppure non superficiale. Il bianco e nero hanno forza e alcune tavole hanno il giusto dinamismo.
Non mancano momenti di riflessione che vanno ben oltre il racconto: il passaggio accanto a una libreria e la citazione di Firmino, il topo bibliofago di Sam Savage, sono l’occasione per mostrare con feroce lucidità il raffronto tra cattiva letteratura e pessima politica, come se la prima sia, se non causa, quantomeno complice dell’altra.
Le parole che non riescono più a far male sono quelle degli scrittori che non hanno saputo usare e raccontare in modo onesto il proprio tempo, sottolineando con la giusta misura gli eccessi e i vizi della politica.
Naturalmente l’indagine per cercare di riportare a casa il topo fuggito alla ricerca di una trasformazione personale avrà effetto anche sul protagonista, che tornerà da questa avventura segnato nel corpo e nello spirito. Tra un passaggio e l‘altro, angoli di Liguria ben tratteggiati, che mostrano una terra bella e fragile, che affascina anche vista da altezza strada.
La chiusura mostra un’ironica amarezza che non stona con il resto del racconto e che rimanda a un’inevitabile riflessione sul rapporto, eternamente conflittuale, tra merito e retaggio.
Di Francesco Cascione