Genova, 09/10/2017.
La riflessione sulla fine dell'Europa è cominciata anni fa per Rafael Spregelburd (attore, drammaturgo e regista). Era il 2012 e all'epoca fu individuato come direttore della XXI edizione dell'Ecole des Maîtres, corso internazionale di perfezionamento teatrale itinerante per attori europei, presso il CSS di Udine, da un'idea dell'editore e critico teatrale Franco Quadri (direttore fino al 2011).
«A l'Ecole ho lavorato in libertà assoluta. Non c'era alcuna indicazione né tematica né alcun obbligo di produrre un testo. Siccome sono un drammaturgo-regista e un attore, per me è sempre più semplice scrivere per corpi concreti, piuttosto che partire da un classico. Ci siamo concentrati su alcuni assunti teorici del mio teatro, principalmente la teoria del caos e il teatro della catastrofe. Proprio mentre ero insieme a questo gruppo di interpreti - 17 attori fra i 24 e i 32 anni provenienti da Italia, Francia, Belgio e Portogallo - è uscito il tema della paura della fine dell'Europa», commenta.
«E così ho cominciato a scrivere una serie di domande su cos'è la fine dell'Europa, della famiglia, della storia, delle arti, delle frontiere, del denaro. Terminato quell'impegno ho abbandonato il testo per riprenderlo poi successivamente. Quando ci siamo trovati di fronte all'opportunità di produrlo ci siamo subito resi conto che non era possibile tenere l'ensemble di 17 elementi. Quindi abbiamo ridotto il cast a chi parlava francese», la co-produzione capitanata da Comédie de Caen, Comédie de Reims con Teatro di Liegi e Stabile di Genova, ha interpreti dalla Francia, dal Belgio e dall'Italia - in scena al Teatro Duse dall'11 al 20 ottobre 2017.
Dal tema al titolo La fine dell'Europa è uno spettacolo teatrale che viene presentato come un dittico: «la prima parte è semplice - commenta Spregelburd reduce dalla prima a Caen - mentre la seconda è più caotica» riferendosi ovviamente alle esigenze sceniche. «Sono sette pièce brevi - continua il drammaturgo - con finti prologhi e una parte più lunga che si chiama appunto La fine dell'Europa. Quindi otto corti teatrali indipendenti che vanno in scena in forma integrale (quattro ore) oppure in due serate distinte (circa due ore l'una)» - al Duse le serate per l'integrale sono il 12, il 15 e il 19 ottobre; il 11, 13 e 14 ottobre solo primo capitolo; il 17, 18 e 20 ottobre solo secondo capitolo.
La struttura a episodi è una marca stilistica del drammaturgo argentino, noto in Italia per le regie di Luca Ronconi al Piccolo di Milano de La modestia (2011) e Il panico (2013) - scritto nel 1999 il primo e nel 2003 il secondo, due episodi di Heptalogía de Hieronymus Bosch, un ciclo di sette pièces dedicate ai peccati capitali e ispirato da un noto quadro rinascimentale di Bosch. Com'è avvenuto l'incontro con Ronconi? Vi conoscevate già? «No, non lo conoscevo. Lui però è stato sempre gentilissimo e ci siamo sentiti qualche volta per parlare di alcuni aspetti delle mie opere. Credo avesse un suo interesse personale per cui, piuttosto inaspettatamente, si interessò alla mia eptalogia. Aveva deciso di fare tre delle 7 pièce ma credo si sia poi scontrato con una situazione istituzionale non così favorevole. La prima la prodosse lui stesso con il suo Centro Teatrale Santa Cristina, la seconda invece andò in scena con tutto il fasto al Piccolo, mentre per il terzo testo di cui il Piccolo aveva acquistato i diritti gli venne bloccata la produzione».
Descrivendo La fine dell'Europa, Spregelburd parla di finti prologhi. «Servono per imparare un sistema narrativo piuttosto matto, che serve a capire l'ultima parte dello spettacolo quella che dà il titolo alla produzione. Ho scelto di affrontare il tema a mio modo, giocando sugli slittamenti di significato delle parole. La trama è molto semplice e si articola intorno a degli americani che hanno comprato i diritti per una telenovela "veramente mala" che si chiama Europa, molto mal fatta. Tutti i testi hanno un ovvio doppio livello di senso: quello che vediamo è una telenovela molto brutta, sotto lavoriamo su temi nascosti dietro il muro delle cose serie della nostra attualità come la Brexit, la paura dello straniero, il terrorismo. Lo spettatore si trova immerso in questo codice ironico, gettato nel mezzo di una cazzata che però, a un certo punto, diventa anche estremamente commovente. Che poi è la poesia: non dire ma suggerire le cose con qualcosa che sta loro vicino».
Com'è andato il debutto in Francia? «Direi bene, Anche se è sempre molto difficile misurare all'estero la risposta del pubblico, non sono sicuro di quello che farà ridere e quello che invece non sarà affatto inteso in senso ironico. Fra l'altro è stranissimo avere me alla regia in Francia, le mie opere le ha sempre dirette Marcial Di Fonzo Bo».
Proprio alla Francia però si deve l'occasione per dare vita a questo ambizioso progetto internazionale, come racconta Spregelburd «è stata la Francia ad avere il finanziamento per far partire il progetto e sono gli standard economico-professionali francesi a imporre il prezzo della tournée». Parlando di Europa con il drammaturgo argentino ci soffermiamo infatti sul senso di distanza, appartenza o eventuali zone d'ombra che lui avverte sull'idea stessa di Europa. «Sono tante le differenze, spesso sembrano solo nuance ma sono molto forti, proprio come nel caso della nostra produzione».
Quindi è un vantaggio o uno svantaggio essere argentino per affrontare il tema dell'Europa? «formalmente lavorare in Europa sta diventando sempre più complesso, l'Europa si sta chiudendo. La storia dell'Europa è però strettamente connessa con quella delle periferie dell'Europa, per esempio l'Argentina, dove più del 50% della popolazione discende da italiani. Noi capiamo perfettamente l'Europa perché ne siamo vittime. Il rapporto è sempre lo stesso: centro contro periferia. I modelli teatrali in Argentina sono sempre stati Europei. Noi rispondiamo con brutalità a tutto ciò che l'Europa vuole imporre sulle ex-colonie o paesi periferici. Questa astrazione che chiamiamo Europa non è solo politico-economica, ma per fortuna ha anche altre realtà, come dicevi tu, il programma Erasmus e l'Ecole des Maîtres, dove la funzione è avvicinare le culture che altrimenti si tornerebbe al Medioevo. Allo stesso tempo però, questi fenomeni coincidono con una rinascita di certe chiusure rispetto alle proprie individualità: ogni piccolo comune parla di identità in senso chiuso, anche perché ora si soffre di un colonialismo interno, per cui per esempio ci sono imposizioni sulla produzione agricola o di latte nei vari stati europei e questo ricrea il solito meccanismo centro/periferia, ma all'interno».
Dal tema alla lingua il passo è piuttosto breve e gira intorno all'idea di traduzione che è anche una delle complessità intorno a cui il testo ha preso forma: «il testo è nato ai piedi del palcoscenico, scritto in italiano, francese, inglese quindi poi ho dovuto tradurlo nella mia lingua. Per questo un ruolo importante nella scrittura l'ha avuto anche Manuela Cherubini, già all'Ecole des Maitres come assistente, era impensabile non coinvolgerla. Con lei abbiamo per esempio trovato alternative per varie parole che funzionavano in italiano ma non in francese. È stato un lavoro di ricerca sulle diverse possibilità che ogni lingua offre. Per esempio il francese, nonostante l'abbia studiato un sacco non lo parlo bene. Perché il francese è fatto di due lingue: quella parlata e quella scritta, dove tutto quello che viene estrapolato dal contesto originale e riproposto non si capisce. E questo ha conseguenze immediate sul testo. Per esempio una frase normalissima, ma con l'aggiunta di una parola brutale che crea un preciso affetto, in francese non funziona perché la si deve spiegare, quindi ho dovuto cambiare molto. Spagnolo e italiano sono lingue più generose che hanno una ricchezza prodotta dalla diversità dei dialetti su cui sono nate, per cui spesso cogliamo il senso di parole che non conosciamo perché ne riconosciamo comunque la provenienza locale. Il francese invece è pura norma in difesa di una certa purezza politica, una lingua difensiva, che soffre di una grande instabilità dovuta a chi la parla fuori dalla Francia o in territorio francese ma da straniero. Io trovo che la sua oralità è barbara perché si tratta di un latino mal parlato».
A livello teorico: quale differenza tra il teatro della catastrofe e la tragedia? «Sono stato influenzato da un modello di costruzione che viene dalla scienza, in particolare dalla matematica e dalla fisica. Ci sono due modi di capire la scienza, quello riduzionista o newtoniano in cui le formule che spiegano il mondo sono formule semplici che descrivono solo due elementi. Quando intervengono tre elementi però queste formule e tutta l'astrazione del sistema euclideo si fermano. Noi non abbiamo un'immagine chiara di come queste catastrofi funzionino, perché ogni volta che interviene un terzo un elemento il sistema newtoniano salta».
«Mandelbrot trovava la geometria euclidea molto noiosa. Per lui quadrati e rettangoli non esistono in natura, per questo ha ideato il calcolo frattale. Non sono certo un esperto di queste cose, ma credo che nel ventesimo secolo la teoria teatrale si sia retta su formule newtoniane. La tragedia si spiega in modo chiarissimo: è la storia in cui un protagonista cerca di arrivare alla fine ma avendo un difetto interno, inerente la sua costruzione come personaggio, poi viene distrutto o annientato. Macbeth, per esempio, è ambizioso, ma potrebbe limitarsi a uccidere uno o due duchi invece continua a commetere omicidi. Perché? Perché è un personaggio tragico, la sua identità contiene una debolezza che lo conduce alla sua distruzione. Questo modo di raccontare è legato al sistema della ragione non a quello naturale. La ragione è una delle attività umane, che organizza il mondo a somiglianza dell'esperienza umana, ma in realtà quello che muore in un sistema forse è proprio ciò che riattiva la continuità di un altro sistema, esattamente come succede in natura».
«Alcuni capolavori letterari seguono il modello della tragedia, come Shakespeare per esempio, ma lui, come altri, ha sospettato esistesse un'altra cosa, quello che chiamo la narrazione catastrofica. In Shakespeare tragedia e catastrofe sono motore dell'azione: il tragico amore di Romeo e Giulietta che non vuole fermarsi di fronte al contrasto delle famiglie, entra in una dimensione catastrofica quando la lettera di Giulietta si perde e nessuno si ricorda il perché. Oggi, esiste una convivenza più sporca tra tragedia e catastrofe, il senso dell'uomo da Beckett in poi non è più tragico ma ridicolo, il nostro destino non è soltanto tragico. Io utilizzo modelli frattali, sistemi che muiono di fronte a sistemi che non erano previsti o che subentrano con forza ed erano già presenti ma giudicati insignificanti».
Beckett rifiutava l'etichetta appiccicata alla sua drammaturgia: teatro dell'assurdo. In effetti c'è molta più verità umana nel suo teatro che in tanto realismo. Forse perché è più semplice ragionare in modo dualistico e ragionare sfruttando il potere degli stereotipi? «Gli stereotipi ci proteggono dalla dissoluzione del mondo, perché se no non riusciremmo a legare causa ed effetto come facciamo attraverso la ragione. Questo va bene, ma dimentichiamo che la mente fa altre cose: c'è l'immaginazione, la risata, le libere associazioni nella nostra mente. Ridiamo perché non possiamo trovare una soluzione a una contraddizione in termini perciò che lo scherzo funziona. È vero però che la cultura crea etichette per leggere un fenomeno come il teatro dell'assurdo e allora Ionesco sembra essere il mero esercizio stilistico di un'epoca. Così in realtà diventa meno pericoloso il suo messaggio perché rinchiuso in una categoria che lo normalizza. In Pinter invece l'assurdo è un elemento di realtà, per questo il suo in Argentina lo chiamiamo "realismo straniato". Oppure i film di David Lynch - lui è sempre stato un modello per me. Comincia sempre i suoi film con un modello narrativo causa-effetto, ma poi succede sempre qualcosa di vitale e sconosciuto, che ti fa perdere il filo».
Siamo nell'epoca del rumore, degli eventi tragici di massa, dell'anomimato che viene alla ribalta, dei social che danno voce a qualsiasi cosa. «Sì e direi che è un'epoca stupida. L'umanità non sa come fare a conservare quello che garantisce la vita. Tutto il sistema economico ha disegnato un modello che si presenta come l'unico, dopo la morte della dualità comunismo-capitalismo, che poi è finta, perché l'idea del socialismo continua ad essere la più giusta almeno rispetto a quella in cui stiamo vivendo: fitta di tragedie su grande scala, tra cui la questione della Siria, la complicità degli stati, il loro silenzio-assenzo, per cui tutto potrebbe accadere ad ognuno di noi. Non si tratta più come un tempo dell'Africa remota nella costruzione dell'Europa quasi come la luna. La sensazione che questo sistema costruisce i suoi mostri è di una stupidità e crudeltà senza precedenti. Allo stesso tempo questa epoca ci permette di nasconderci dietro agli amici: io ne ho tantissimi in Germania, Spagna, Italia. Questo è il mio mondo, un mondo di dispersi che ci scegliamo mentre abbiamo ancora un sistema più o meno democratico, che non funziona bene, ma ci accontentiamo perché non è peggio di qualcos'altro. Questa contraddizione è davvero urgente. Per noi argentini la realtà assomiglia più a quella di Ionesco che a quella di Strindberg. Il realismo magico, come dite voi, per noi è realismo e basta».
A breve Rafael Spregelburd sarà impegnatissimo nell'altro ruolo che lo vede protagonista non a teatro però ma al cinema come attore. «Devo tornare a breve, perché giro un film a Buenos Aires come attore: Vida perduta, l'adattamento di un romanzo argentino, per un film noir che è una coproduzione con la Spagna. Sono stato di recente a Venezia per il film Zama, di Lucrecia Marcel. E ancora sarò in La otra piel, di una regista argentina. Tutti progetti che si devono concludere in questi prossimi due mesi per uno scandalo che ha coinvolti i fondi ministeriali per il cinema».
11-20 ottobre al Teatro Duse - Prima
Nazionale
Fine dell’Europa
spettacolo
recitato in francese con sovratitoli in
italiano
scritto e diretto dal drammaturgo
argentino Rafael Spregelburd
collaborazione al testo e alla regia Manuela Cherubini
versione italiana di Guillermo Pisani
con Robin
Causse, Julien Cheminade, Sol Espeche, Alexis Lameda-Waksmann,
Adrien Melin, Valentine Gerard, Sophie Jaskulski, Emilie Maquest,
Aude Ruyter, Deniz Özdoğan
scena e luci Yves Bernard
Lo spettacolo è un dittico costituito da due capitoli autonomi e va in scena con il seguente calendario:
11, 13 e 14 ottobre solo la prima parte.
12, 15 e 19 ottobre lo spettacolo integrale (4
ore).
17, 18 e 20 ottobre solo la
seconda parte.
La recita del giovedì di ogni spettacolo in cartellone, inizia alle ore 19.30.
Di Laura Santini