Genova, 14/12/2017.
Due cuori nomadi, tesi tra l'Italia e il Vicino Oriente. Due cuori, un cuore: quello di Omar. Figlio di madre italiana e padre palestinese, è solo un bambino quando quest'ultimo, un giorno, all'insaputa della madre, lo porta via da Genova e dall'Italia per crescerlo accanto alla famiglia paterna. Passeranno anni prima del suo definitivo ritorno in Italia, anni in cui Omar vivrà in prima persona un'altra cultura. Un altro mondo. E anche una volta rientrato non potrà non rendere conto di questi suoi due cuori.
È la storia raccontata da Omar Rizq nel libro I miei due cuori nomadi: la sua storia. Oggi, infatti, diventato uomo, ha deciso di affidare alla carta, ricordi, emozioni, riflessioni e anche alcuni disegni della sua giovinezza. Nel libro, edito da il canneto editore con il patrocinio della Fondazione Guido e Giovanna Zavanone, Omar Rizq racconta la sua realtà «con la spontaneità di uno scrittore istintivo e l'incancellabile emozione della sua incredibile esperienza», scrive Vittorio Coletti nella prefazione.
Una storia certamente complessa, nella quale far capolino anche attraverso queste parole di Omar Rizq.
Ne I miei due cuori nomadi racconti la tua
storia - come scrive Vittorio Coletti nella prefazione - di
«bambino genovese conteso da due genitori, due lingue, due mondi».
In un tipo di vicenda che spesso predilige dar spazio alla voce
degli adulti, il punto di vista di questo libro è quello del
bambino e del ragazzino che sei stato. È attraverso questi occhi
che il lettore si confronta non solo con le sue emozioni e i suoi
sentimenti, ma anche con il mondo degli adulti. Come è stato
recuperare questa voce di bambino?
«Il motore propulsore che mi ha portato a mettere nero su bianco
questa storia è l'aneddoto con cui comincia il libro stesso, un
evento così forte che mi ha scosso dal torpore che mi ha sempre
fatto rimandare la stesura di questo diario. E penso che
il procrastinare fosse da imputare in gran parte al mio non sapere
da dove cominciare e come. Poi, però, lo scossone mi ha messo
finalmente di fronte all'inevitabilità; quando ho cominciato a
scrivere, inizialmente, ho solo fatto opera di trascrizione del
piccolo diario di mia madre. La vera sfida, la balena bianca che si
metteva fra me e lo scrivere di quell'infanzia, si è presentata
quando ho dovuto fare i conti con la scrittura in prima persona e
quindi con i miei ricordi, soprattutto quelli di me bambino. Allora
mi sono detto, comincia dal primissimo ricordo di cui hai memoria,
che poi si è tradotto nel rievocare i primissimi ricordi che ho dei
miei genitori. Da lì mi sono sorpreso artefice e
navigante allo stesso tempo di un flusso che non si è più
fermato come un fiume in piena, genuino e spontaneo. È stato
curioso vedere cosa ne scaturiva, in fin dei conti scrivevo da
29enne ma nella prima persona di un bambino di sei anni che pian
piano cresceva (un sorta di dualismo nel dualismo). Un amico,
quando ha finito di leggere il libro, mi ha detto Mi piace come
hai adattato il tuo stile di scrittura man mano che crescevi di età
nel racconto e la cosa mi ha divertito e sorpreso perché in
realtà io questo non l'ho fatto intenzionalmente, ho solo
pensato direttamente nei ricordi che rievocavo e quindi di
conseguenza ho scritto. Per rispondere più direttamente alla
domanda, è stato come sognare ad occhi aperti dei ricordi e
riviverli ma allo stesso tempo quel bambino di cui scrivevo mi
sembrava ormai un'altra persona, tanto è distante nel tempo.
Nel libro racconto proprio di un sogno fatto a vent'anni, in
cui parlavo con me stesso bambino, e descrivo com'era strano
sentire di essere io quel bambino ma allo stesso tempo percepirlo
come un altro bimbo, qualcosa di diverso da me. Con il senno di
poi, direi che nello scrivere ho avuto un derivato di quella
sensazione: incontrare un altro me stesso, dopo tanto tempo, e
quindi recuperare una parte perduta, quella che tutti noi troppo
spesso smarriamo».
Il libro è, più in generale, una storia di crescita: si
avverte, infatti, il cambiamento che, inevitabilmente,
dall’infanzia porta all’adolescenza. Fino all’età matura: quella
della riflessione, dei perché. Crescere vuole dire anche «essere un
nomade che continua il proprio viaggio per scoprire la versione
adulta del bambino che è stato», come scrivi, e fare i conti con i
propri genitori, colti pure nella loro imperfezione umana, con il
carico di bene e di male (volontario e involontario) che ci possono
aver fatto?
«Quando mi sono guardato indietro ho capito che, in retrospettiva,
era proprio così. Spesso mi sono trovato a constatare che la prima
grande tragedia per una persona è quando, per la prima volta, si
rende conto che i genitori sono semplici esseri umani, mortali,
fallibili e pieni di insicurezze. La ritengo una tragedia perché ci
mette di fronte al fatto che siamo individui a sé, in qualche modo
soli al mondo, nel senso che prima o poi lo saremo e
dovremo contare solo su noi stessi. In quel momento capiamo che non
siamo un'estensione dei nostri genitori ma solo figli,
come figli lo sono stati anche loro prima di essere genitori. Ma
questo è solo un punto di partenza, non deve essere inteso come un
epilogo. Tutto comincia da qui, è in quel momento che, penso, si
senta di essere diventati nomadi della vita. Cominciamo con le
domande che contano veramente, quelle fatte fuori dalla comfort
zone, reggendoci sulle nostre gambe. Freud diceva che bisogna
metaforicamente uccidere i propri genitori per crescere.
Aggiungerei che, nel momento in cui lo si fa, si uccide anche una
parte di se stessi (nel bene e nel male) per farne nascere una
nuova».
In un episodio della tua infanzia racconti di essere
stato chiamato straniero. In un altro punto del libro
scrivi: «La battaglia emotiva dentro di me era potente […], e
cominciava a rivelare sempre più chiaramente le mie due nature, i
miei due cuori nomadi, quella condizione che non mi faceva sentire
né carne né pesce, uno straniero ovunque, sconosciuto persino a me
stesso». Cosa significa per te la
parola straniero?
«In arabo la parola
gharb (luogo dove tramonta il sole, ovvero occidente) ha
le radicali in comune con la parola ghariib (strano).
Questo lo trovo eloquente e azzeccato: per me lo straniero, lo
strano, il diverso, è solo qualcuno di cui non sappiamo abbastanza,
magari per pigrizia o timore. Una persona come me che a sua volta
non sa di me abbastanza per sentirmi simile a lui. Oggi i muri
individuali e collettivi hanno esasperato questo divario, creando
molti più stranieri di quanti in realtà ce ne siano, con il triste
risultato che finiamo per non sapere niente neanche di noi stessi.
Troppo spesso abbiamo paura di superare i confini della nostra
individualità per conoscere davvero il prossimo, ci mette in
discussione e può farci scoprire di non essere proprio quel che
credevamo. Per me lo straniero è solo una persona, nel migliore dei
casi un amico, che ancora non ho avuto modo di conoscere».
Tra le tante figure del libro c’è una donna: Um Husein.
Un simbolo anche. Cosa rappresenta per te?
«Um Husein oltre a essere stata una grande amica in terra
straniera, per mia madre, dandole rifugio ospitandola a casa
propria, aiutandola a imparare la lingua araba e sostenendola
quando mi cercava, è stata per me un emblema, l'esempio
lampante di come il bene e il male siano vicini di casa ovunque nel
mondo e a più livelli, e pertanto non bisogna mai e poi mai fare di
tutta l'erba un fascio. Come spiego nel libro, la famiglia, in
Giordania e nei Paesi arabi, prende sempre il nome del padre di
famiglia, in questo caso, invece che essere Daar Abu Husein, era
conosciuta come Daar Um Husein (casa di Um Husein), e questo parla
da sé. Lei è l'immagine che richiamo alla mente, come
simbolo, ogni volta che sento spiacevoli luoghi comuni, frasi fatte
o etichette (queste ultime soprattutto sdoganate dai media) sul
Medio Oriente e sulla cultura arabo-islamica in generale. La sua
solarità, genuinità e allo stesso tempo emancipazione e forza, non
solo trasudavano dalla sua persona ma si riflettevano in suo
marito, Abu Husein, nella famiglia-alveare che aveva intorno, dai
figli ai pronipoti, e nei valori che trasmetteva loro anche, ma non
solo, religiosi. Una madre che nel quartiere era
considerata matriarca e questa immagine, vista in un paese
arabo-islamico, ha lasciato un traccia, in me, vibrante e
indelebile».
Anche i luoghi nel tuo libro sono protagonisti,
diventando spesso posti delle emozioni. Uno su tutti, il territorio
di Dulayl: un luogo da chiamare casa. Cosa vuol dire oggi
per te sentirsi a casa?
«La mia storia, in fin dei
conti, è un cammino, come quello di chiunque, nella vita. Ed è un
cammino ancora in essere, sempre in evoluzione e crescita. Però
l'aver vissuto queste due vite, due famiglia, culture e case,
mi ha fatto capire che, indubbiamente, la casa non è quella fatta
di mattoni o una particolare via o quartiere. O meglio, può
essere anche quelle cose. Può essere il mare di Genova e
della Sicilia come pure il deserto di Dulayl. Può essere gli amici,
i cugini, gli affetti, mia madre e mio padre. Tutte queste
componenti, rimaste nel cuore e nella mente, mi hanno reso quello
che sono oggi, quindi la mia casa è dentro di me insieme ai legami
che ho stretto; in definitiva la mia casa sono io stesso ovunque
sia. E sentirsi a casa è fare pace con se stessi e la propria
natura».
Ritornando ai bambini, a un tratto nel libro si assiste
alla nascita della tua sorellina e scrivi: «dentro di me pensavo
che […] eravamo il nuovo contro il vecchio, un’unione che
mi faceva vivere un nuovo inizio». I bambini come speranza per il
futuro?
«A costo di suonare retorico, sì, questa è una
delle mie poche certezze. Solo i bambini hanno ancora la
possibilità di diventare adulti diversi da quelli che siamo noi
oggi. Hanno l'energia e le infinite possibilità che gli adulti
sconfitti di oggi hanno ormai bruciato. La responsabilità nostra è
quella di provare a essere giuste guide con l'esperienza delle
battaglie perse, salvaguardarli e indirizzare la loro purezza e la
loro creatività verso i giusti orizzonti».
Omar Rizq come si vede nelle vesti di
padre?
«Ad oggi, quando guardo in quella direzione,
vedo ancora con poca chiarezza, come attraverso l'aria
deformata di un miraggio. Idealmente mi vedo bene in quel ruolo.
Sono stato anche educatore e i bambini provano sempre simpatia per
me. So essere un buon amico e anche questo credo che conti.
Sicuramente ho già una buona lista di esempi di errori da evitare.
Eppure essere padre è ben altro che la somma degli elementi che ho
appena elencato e, per questo motivo, sento che non ho una risposta
completa a questa domanda; sono ancora nomade anche in questo
aspetto della vita».
Di Redazione