La quinta sezione porta il titolo di La vendetta di Artemisia. Chi sostiene che Artemisia dipinga più volte nella sua carriera la scena in cui Giuditta decapita Oloferne perché vuole vendicarsi in questo modo della violenza subita da Agostino Tassi, non rende sufficiente merito al suo talento e alla sua grandezza. Questo soggetto è uno dei più diffusi all’inizio del Seicento e Artemisia risponde con grande originalità alle richieste dei collezionisti. Giuditta, giovane ebrea di Betulia, città biblica della Palestina, compie il gesto eroico di uccidere il condottiero assiro Oloferne, che sta assediando il suo popolo. Con la scusa di proporre un’alleanza, viene accolta nell’accampamento nemico: durante il banchetto organizzato in onore dell’ospite, Oloferne si ubriaca e cade in un sonno profondo. A quel punto, con l’aiuto della fantesca Abra, Giuditta decapita l’uomo con la sua stessa spada, nascondendo la sua testa in un panno per mostrarla poi come trofeo al suo popolo, ormai liberato. Artemisia riesce a rappresentare la scena insistendo sulla tensione che anima le due donne nel compiere questa impresa, che all’epoca conquista i collezionisti perché sovverte il tradizionale rapporto tra la forza maschile e la fragilità femminile. Nello sguardo di Artemisia, Giuditta è più decisa e fiera rispetto a come sia stata dipinta da altri grandi pittori del suo tempo, come suo padre Orazio, al quale si ispira in una celebre versione della vicenda. Elisabetta Sirani a Bologna raccoglierà l’eredità di Artemisia, dedicando gran parte delle sue tele a donne coraggiose, come Timoclea, che spinge in un pozzo un comandante dell’esercito di Alessandro Magno, dopo essere stata violentata da lui. Storie terribili, a cui le pittrici del Seicento si ribellano con la forza della loro pittura. Sono dunque qui esposti due dei capolavori della pittrice, Giuditta e Oloferne, della Fondazione Carit di Terni, e Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne, del Museo di Capodimonte, entrambi accostati e messi a confronto con la famosa Giuditta e Oloferne del padre Orazio Gentileschi, proveniente dai Musei Vaticani. In Giuditta e Oloferne, opera di grande violenza, c’è chi legge il desiderio di vendetta della donna contro il suo stupratore. In Giuditta e la sua ancella si può invece trovare la sua delusione per il tradimento della governante Tuzia che assecondò la violenza e accusò in tribunale Artemisia di aver provocato le attenzioni di Agostino. Questi dipinti portano la testimonianza bruciante di un personale percorso di rivincita, sono il campo di battaglia in cui questa donna-artista combatte gli uomini che hanno provato ad annientarla. La sentenza che conclude il processo, pur riconoscendo Agostino colpevole della violenza, non contribuiscono a migliorare una reputazione ormai compromessa, che Artemisia riuscirà a migliorare soltanto grazie al suo eccezionale talento e alla forza d’animo che guiderà la sua carriera, costretta a continuare fuori da Roma.
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