Genova, 18/04/2017.
Era il 2003 quando Flavia Mastrella e Antonio Rezza, con il loro spettacolo teatrale Fotofinish, affrontavano, ante litteram, il tema del selfie. In tempi non sospetti l'idea dell'autoscatto come fuga dal proprio stato di isolamento era già secondo i due artisti una possibile pratica umana. «Come tutta l'arte auto reggente - spiega Rezza - quello che accade intorno ci riguarda come no. Siamo stati precursori, in un certo senso, di qualcosa che si è sviluppato per demerito degli altri. Quello che potrebbe sembrare un tema strettamente legato al presente, per noi è stata un'intuizione: questa persona che si fotografa per non sentirsi sola».
A trent'anni dall'inizio del loro connubio, i due artisti tornano al Teatro della Tosse (20-22 aprile 2017), dopo il successo di Fratto X nel 2014 con il loro spettacolo, ma anche con due loro film documentaristici per il cinema: Troppolitani - Fuori dove? (Csoa Zapata, 19 aprile) e Milano, via Padova (Cinema Cappuccini, 23-30 aprile).
In Fotofinish si tratta di solitudine, ma anche di esaltazione del proprio ego, fattori adiacenti anche nel fenomeno del selfie, o autoscatto: il personaggio è ossessionato dal proprio sé e dall'esercizio del potere a proprio capriccio. «Trovo volgare il selfie - prosegue Rezza - trovo schifosa la parola e come si pronuncia, mi pare più volgare che culo o merda». Perché? «Qualsiasi parola entri a far parte del linguaggio collettivo fa schifo. Mi chiedo continuamente perché bisogna rassegnarsi a parlare tutti allo stesso modo. Io mi sforzo di esporre le cose in modo diverso, autonomo, mi pare il minimo in questo mondo globalizzato, dove non ci è consentito più molto. E poi autoscatto è molto più bello, no?»
Il tema del potere è un fil rouge costante all'interno del corpus teatrale di Rezza e Mastrella: «Per noi il potere non esiste. Noi disprezziamo il potere visto come sopraffazione in tutte le sue forme. Per questo siamo autonomi e independenti da 30 anni. Per questo possiamo permetterci di portare in tournée tutto il nostro repertorio». Di aggiornamento non se ne parla: ogni lavoro è una costruzione artistica finita: «Questi sono spartiti, sono come dei concerti. Abbiamo il privilegio di portare i nostri lavori in scena come e quando vogliamo, ma non vengono aggiornati, al massimo possono risentire del movimento di altri spettacoli. Per il resto, però, sono delle esattezze, corrispondono a un montaggio precisissimo tra parola e movimento, come se fosse un film, una sequenza».
Oltre al personaggio principale e alla sua bulimica ansia di possesso e imposizione, in scena ci sono anche le suore. «Nei nostri lavori - interviene Flavia Mastrella - c'è sempre tutto il tessuto sociale italiano e, possibilmente, internazionale. Prendiamo sempre spunto da un'idea astratta, ma Fotofinish rappresenta un lavoro importante, la rinascita del nostro lavoro». In che senso rinascita? «C'è ancora un allestimento, ma si capisce già il senso di invadere tutto lo spazio del teatro, invadere la platea a macchia. Tutto è bianco come il punto zero. È il lavoro che rompe con i quadri di scena, quello in cui il corpo esce allo scoperto e invade tutto. È la disperazione della vita».
Sembrerebbe che la solitudine sia vissuta solo come dimensione drammatica, ma c'è anche chi sceglie la solitudine, o chi la cerca come condizione felice. «La solitudine è un punto di vista; per esempio per la persona creativa è necessaria. La solitudine è l'assenza di chi non ti è vicino. Può essere disperata o meno, in ogni caso è un evento drammatico. In Fotofinish c'è la solitudine insieme alla ritualità e alla spontaneità. Le nostre situazioni sono aperte a ogni tipo di interpretazione. Dare una soluzione è impossibile, si diventerebbe educatori». È possibile educare con il teatro? «Quando il teatro diventa educativo è finito. L'arte è maleducata per definizione, ha una funzione di risveglio. Oggi poi siamo tutti educati, sovra-educati; pensa ai telefonini: oggi persino agli ottantenni l'hanno insegnato».
Accanto allo spettacolo teatrale, Rezza e Mastrella presentano Troppolitani - Fuori dove? e Milano, via Padova: disagio mentale e razzismo sono i temi affrontati in una serie di interviste. «Il primo ce l'ha commissionato la Fondazione Bertini Malgarini Onlus - afferma Flavia - Siamo andati in piazza dei mercanti in occasione della festa per i trent'anni della legge Basaglia, c'era di tutto: bipolari, autistici, abbiamo intervistato tutti. Eravamo partiti credendo che non esistesse la follia, ma nel confronto con queste persone abbiamo conosciuto la sofferenza, che è molto forte. Abbiamo incontrato la patologia, che non crea stravaganza ma dolore vero».
Passandosi rapidamente la parola e intrecciando i loro pensieri senza soluzione di continuità, Rezza continua: «Ognuno crede di essere un po' matto. Oppure a volte ci spera per giustificare la propria diversità, ma bisogna guadagnarsela la pazzia, non si può creare semplicemente come alibi per giustificare lacune o superficialità».
Milano, Via Padova è già stato nelle sale, «a Napoli, Milano e Bologna. A Milano è andato benissimo. Intervistiamo gente razzista che diventa paradossale e comica, in uno spaccato di realtà forte che abbiamo descritto. Abbiamo migliorato il lessico, tolto le tante esitazioni, lavorando con il montaggio». Ma le persone intervistate come hanno reagito dopo? Si sono viste sullo schermo? «Molti si sono venuti a vedere.Abbiamo fatto tutto con amore - dice Flavia Mastrella - Noi siamo molto rispettosi delle persone».
Spesso ad essere razzisti in modo più rabbioso sono coloro che a loro volta sono stati migranti: «È una lotta tra marginali - interviene Rezza. Via Padova comunque è una via bellissima. La nostra arte non è rappresentativa, quella sarebbe arte inutile. Noi abbiamo realizzato una falsificazione della realtà. Speriamo sia un film che smuova una bella rispondenza. In entrambi i casi si tratta di film che fanno ridere su cose agghiaccianti. È dopo, una volta che il film è finito, che uno si chiede su cosa abbia riso».
Di Laura Santini