Ottomila dal divano: è in libreria il nuovo libro di Massimo Sorci

Una sera di gennaio, un uomo di mezza età con qualche sogno incartapecorito nel cassetto, progetta – seduto sul divano di casa – di conquistare tutti gli Ottomila, trasformandosi in alpinista di risulta. La sua intenzione è salire in un anno solare un totale di 116mila metri mettendo in fila le quattordici vette più alte della terra, dall’Everest allo Shisha Pangma, rosicchiando tempo agli impegni familiari e al lavoro. Inizia così una serie di ripetute scorribande, anche notturne, tra le alture di Liguria e Umbria – suoi luoghi di vita e di origine – con qualche puntatina sulle Alpi e su alcune “cime del cuore” nell’Appennino marchigiano e abruzzese.

Questa l'idea che ha dato vita a Ottomila dal divano. Tecniche di spostamento dell'orizzonte, il nuovo libro di Massimo Sorci (Stefano Termanini Editore Serel International), disponibile da qualche giorno in libreria (ma il libro è prenotabile anche qui).

Sorci, di origini umbre ma genovese d'adozione, è giornalista e amante della montagna. Questo è il suo secondo libro, dopo Facciamo che andiamo, uscito nel 2014.

Vi proponiamo una parte del primo capitolo di Ottomila dal divano.

Genova, 30/01/2025.

È cominciata che stavo spaparanzato sul divano a guardare uno di quei programmi di politica parlata. Era una sera interna della settimana, un mercoledì o un giovedì, non ricordo bene  ed ero intontito da una giornata passata alla scrivania.
Faccio un lavoro abbastanza statico, scrivo per altri comunicati stampa, dichiarazioni, relazioni, cose così e sto spesso in mezzo a persone che amano parlare. Insomma, ero seduto sul divano di casa mia e c’erano ‘sti qua alla tele che si beccavano come galli messicani e a un tratto mi sono visto gonfio di tequila a scommettere dieci pesos a bordo ring.
Niente, ho tolto il volume. Mi pareva una scelta sensata. Nella stanza, in penombra, si sono messe a danzare le luci dello schermo con intensità intermittenti. Regnava un silenzio illogico.
Allora, tanto per fare qualcosa, ho preso il cellulare e ho cominciato a sfogliare la gallery, meccanicamente. I miei figli, la Cri, mi sorridevano e c’erano anche paesaggi con tramonti, compleanni, convegni, interventi al microfono, balaustre marittime, tavolate e tante, tante montagne, Liguria, Umbria, Valle d’Aosta, estate, primavera, inverno. Un esauriente spaccato del mio posizionamento nel mondo.

È così che a un certo punto è apparso un tipo coi capelli lunghi e striati di bianco, da cane sbaruffo: stavo in cima al Gran Sasso d’Italia ed era il 14 agosto dell’anno precedente. Ricordavo esattamente la data perché ero andato in Umbria, in quel periodo. Mio padre era un po’ acciaccato e avevo deciso di passare qualche giorno dai miei.
Quel 14 agosto mi ero svegliato presto e, dopo un paio d’ore di macchina, ero salito dalla «direttissima». Ricordo che c’era un via-vai di caschetti e di corde sotto un cielo livido, quasi autunnale, e un ventaccio gelato che tirava via. La bandiera aggrappata alla croce sommitale sbatacchiava come un lung-ta solitario e la luce aveva una fluorescenza biancastra.
Ricordo anche il momento dello scatto, su in alto a 2.912 metri: non ridere, non rovinare tutto coi denti minchioni. Intorno a me la gente ruminava stecche di cioccolata e panini: accucciata, in piedi, seduta sulle pietre e i licheni gialli.
Mentre alla tv si muovevano sagome cravattone in un colorato cinema muto, dallo schermo del mio Samsung avevo quei due familiari occhi a fessura che mi scrutavano di sbieco. Divertiti.

Era un giorno interno della settimana, l’ho già detto. Non ricordo se un mercoledì o un giovedì e stavo spaparanzato sul divano a puntare spicciolame sui galli da battaglia nella latteria catodica di casa mia. Il mese me lo ricordo, però: febbraio, più o meno l’inizio di febbraio.
Gennaio era corso via in maniera molto proficua. Per me e per le mie ricreazioni. Nella prima settimana ero stato in vacanza dalle parti di Monginevro, con moglie e figli. A sciare. Io, in verità, avevo fatto più che altro la dama di compagnia, non avendo familiarità con uno sport mai praticato da ragazzo e che – visto lo stato delle mie articolazioni – sarebbe stato irrazionale praticare da studente tardivo. Cammina re sì, avevo camminato. Arrancando in salita, nella neve. Perché andare per monti nei mesi freddi mi dà un gusto meno domestico, più appagante. Con le ciaspole e – in alcuni tratti ghiacciati – con i ramponcini, avevo coperto in quella settimana quasi quattromila metri di dislivello positivo. Una fatica becca. Col de Saurel, il vallone sotto lo Chaberton fino al passo che dà sulla Val Clarée.

Per l’Epifania – che sentenziava il mio cinquantacinquesimo compleanno – mi ero regalato una gita speciale: cima dello Janus e poi giro largo in cresta, lambendo le piste battute dagli sciatori. Chissà cosa pensavano quando, appesi nel seggiolone dello skilift, guardavano questa sagoma scarmigliata guadagnare faticosamente metri su pendenze da pene dantesche.
Arrivato a Fort Gondran, avevo abbandonato le piste segnate per proseguire verso il Lago dei Sette Colori seguendo la curva interna, dalla parte opposta agli impianti. Un tragitto che d’estate avevo percorso spesso senza difficoltà e che anche d’inverno non è poi così proibitivo. Solo che con la neve alta diventa tutto più complicato. Non tanto perché si avanza con estrema lentezza, ma perché cambia la forma delle groppe, specialmente se ne è venuta giù tanta. Un accumulo, favorito dal vento, può gonfiare tratti che sembravano tranquilli e si rischia di affondare fino al ginocchio. La progressione diventa faticosa e, in quel biancore omogeneo, va a finire che uno perde pure la direzione.
Insomma, per farla breve, stavo finendo giù dritto nella valle di Font e sarebbe stato un problema rimettersi in carreggiata. Per fortuna, invece, ero riuscito ad arrivare – più o meno alle quattro del pomeriggio e un po’ provato dal fuori programma – allo «Chalet des Anges» dove mi stava aspettando la Cri per festeggiare il compleanno insieme a qualche amico nostro.

In montagna ci vado da sempre, anche se da qualche anno ho intensificato la frequenza. Appena ho un attimo di tempo libero o un week end in cui posso prendermi una giornata intera non sto a pensarci su più di tanto: Appennino tosco-emiliano, Alpi liguri e Marittime, le alture sopra casa, promontorio di Portofino, va bene tutto purché si vada.
Con l’avanzare degli anni mi sono messo anche a programmare – e realizzare – uscite di qualche giorno, pernottando in tenda o bivaccando in punti d’appoggio più o meno di fortuna. Niente di estremo, per carità, ma qualcosa in più di una semplice sgambata domenicale.
Naturalmente, lavorando nel mondo della comunicazione non mi sfugge di essere diventato un succulento bersaglio per pubblicitari e addetti alla promozione di prodotti e stili di vita, come si dice: maschio di mezza età avanzata, fisico ancora discretamente asciutto, amante della wilderness o di qualcosa che la evochi, alcuni progetti rattrappiti per eccesso di razionalità e un desiderio di evasione controllata sempre pronta a uscire allo scoperto. Colpito!
A questo proposito mi viene in mente uno spot recente di un’auto... adatta allo spare time. Tre ex ragazzi partono per un’avventura nella natura selvaggia mentre le loro mogli si accontentano di passare il week end in un centro benessere nei dintorni; a un certo punto si mette a venir giù un diluvio universale e i tre sono costretti a dormire in macchina, sì, proprio quella che i pubblicitari vorrebbero vendere a chi ama l’avventura. Niente tenda, niente abbraccio al lato wild del mondo e sguardo divertito e perculante delle mogli che li vedono ritornare all’ovile con la coda tra le gambe.

Sono molti i motivi per i quali uno va in montagna.
Oltre alle paturnie della mezza età, voglio dire. Necessità di affrancarsi anche soltanto per qualche ora dai ritmi nevrotici della città, bisogno di solitudine, di silenzio, voglia di sentire quel senso di libertà che una scorribanda in alto riesce quasi sempre a regalare. E ancora, attrazione per il selvatico, ritorno alle origini incorrotte dello stato di natura, produzione di
endorfine per la manutenzione dell’ottimismo quotidiano. L’altitudine e il remoto sono spesso considerati un ponte di collegamento con l’idea di Assoluto oppure un semplice pretesto per mettersi alla prova, superare i propri limiti, imbrigliare la paura dell’ignoto. E si potrebbe continuare, non dico all’infinito, ma quasi. Anche perché esistono tante montagne quante se ne possono immaginare nel singolo foro interiore di ciascuno di noi.

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