Genova, 18/08/2018.
Questa non è una cronaca dei funerali di Stato.
La città c'era. Vedere chi si recava alla cerimonia a piedi, avendo avuto cura di parcheggiare anche a distanza, è stato già un commovente partecipare alla processione civile, perché dignitosa e rispettosa, in cui i genovesi e tutti coloro che sono intervenuti hanno saputo dimostrare compostezza e partecipare senza clamori, senza intasare gli accessi, senza accalcarsi, senza far troppo rumore (senza selfie). Per un lungo tratto solo un leggero scorrere di veicoli e il suono cadenzato e necessario dei passi.
Questa è solo una riflessione ispirata dalle parole intense della filosofa statunitense Judith Butler.
Nella sua raccolta di saggi Precarious Life. The power of mourning and violence (2004), Butler affronta la questione dei traumi collettivi, del lutto e di come rabbia, violenza e chiusura non rappresentino mai una soluzione, ma siano al contrario i passi verso un inasprimento della condizione dolorosa. Osservando e analizzando la risposta americana al crollo delle torri gemelle dell'11 settembre 2001, ma anche affrontanto la questione israelo-palestinese, Butler porta in primo piano l'idea di identità privilegiate contro identità che non hanno diritto di necrologio (i palestinesi sulla stampa americana, per esempio); ribadisce il concetto di responsabilità e di come non si possa che esercitare collettivamente; e ricorda come di fronte alla ricerca delle ragioni e delle colpe che stanno dietro a un trauma collettivo la censura impedisca il dibattito e crei fazioni incomunicanti che riducono la capacità politica di intervenire in modo etico.
Butler ricorda a più riprese di come la natura umana sia intrinsecamente relazionale: "at the most intimate levels, we are social". Sottolineando la relazione come dimensione fondante dell'essere umano, la filosofa americana indica il dolore e il lutto come momenti che ci portano dentro un processo di trasformazione verso una nuova identità sconosciuta che dobbiamo imparare ad accettare e conoscere: "I am not fully known to myself, because part of what I am is the enigmatic traces of others". Provare dolore significa calarsi in un destabilizzante smarrimento in cui si confondono senso di perdita, rabbia, enigma, attesa per un certo ordine precedente da ritrovare.
Ripercorrendo le acute quanto immediate parole di Butler di fronte alla tragedia umana che ha colpito le vittime del Ponte Morandi e di quella civile che ha tagliato in due e isolato Genova lo scorso 14 agosto, emerge chiaro il messaggio che non si possa che reagire attraverso un'attività collettiva. Occorre trasformarsi e trasformare la rabbia, il rancore e tutto ciò che ci induce a una risposta violenta, per trovare risorse in un dibattito che abbia davvero il bene collettivo come priorità. Ogni gesto violento, porterà solo conseguenze violente. D'altra parte, ogni tavolo di discussione metterà a confronto posizioni diverse e il concetto di Stato, istituzione preposta a difendere il bene comune, dovrà garantire che si arrivi a una soluzione partecipata e che rispecchi il massimo beneficio possibile evitando ulteriori danni, dolori, spreco di risorse.
Occorre smettere di agitarsi in modo individuale e solo tramite i social, un po' come pesci che pensano di poter navigare gli oceani da soli. Occorre smettere di abboccare a questa o quell'altra esca di svianti notizie false e tendenziose mirate a portare qualcuno alla gogna come colpevole o lapidare perché irresponsabile. Che risultato sarebbe? Chiediamocelo? Questo non significa non avere a cuore la ricerca delle responsabilità precise legate alla tragedia, al contrario significa dedicare il tempo necessario a stabilire il come, il perché, il chi e il quando. Non perdiamo però tempo prezioso a fare un mestiere che i magistrati conoscono fin troppo bene e adoperiamoci piuttosto per risalire alle fonti delle notizie che leggiamo, e quindi eventualmente a contribuire all'indagine invece che inseguire presunti untori solo per il gusto di sfogare una rabbia immediata.
Non abbocchiamo alle briluccicanti esche - per qualcuno persino gustose - che altro non sono se non biechi tranelli per catturarci e tenerci stretti in una rete di ignoranza e acriticità. Le soluzioni facili e rapide sono una chimera, certo si potrebbero sfruttare nuove tecnologie e sostegni terzi per avviare un processo virtuoso e snello che permetta una ricostruzione in tempi non italioti. Si potrebbe chiedere aiuti all'Unione Europea invece che addittarla come presunta co-responsabile della nostra incuria.
Allora, agiamo come collettività assumiamoci la responsabilità scomoda di un popolo che in termini di opere pubbliche e di manutenzione è da tempo immemore colpevole di trascuratezza, negligenza e immobilismo. Ognuno si assuma le proprie responsabilità anche per lo scarso interesse dimostrato di fronte ai vari progetti che avrebbero evitato la tragedia: la Gronda, i passanti e tutto quanto negli anni è stato presentato e discusso, osteggiato, criticato, quasi stracciato fino ad essere archiviato.
Ognuno di noi e tutti noi oggi siamo chiamati a prenderci una parte di colpa per aver contributo anche con l'indifferenza alla tragedia. Cambiamo mentalità, dunque, dismettiamo la disinformazione, il mugugno, le chiacchiere da bar, smettiamo di essere approsimativi, di dipendere dalle opinioni degli altri e restare isolati e faziosi. Ricordiamoci di come le acciughe che fanno la palla si fanno beffe anche dei predatori più feroci e attraversano i mari.
Di Laura Santini