Magazine, 12/02/2025.
È appena il caso di ricordare che l’analisi testuale rappresenta solo una parte della riflessione sul linguaggio della canzone, che deve necessariamente essere integrata con l’ascolto della musica e con il complesso della performance del cantante o del gruppo, ivi compresi l’interpretazione, l’outfit (abito e accessori), il trucco e "parrucco", la scenografia e ogni altro elemento di contorno e visuale, oggi sempre più rilevante. Ma il testo resta comunque un elemento fondamentale per il giudizio complessivo e il successo di una canzone, in sottile equilibrio tra “noto” (la presenza di “riecheggiamenti”, citazioni più o meno esplicite, tributi, rispetto ad altre canzoni del repertorio generale) e “nuovo”, fattore che ne determina l’orecchiabilità, la memorabilità e la cantabilità.
In passato, il testo era di solito asservito alle esigenze della musica, della “mascherina” musicale, per cui erano le parole a doversi piegare alla “gabbia” delle note, con l’effetto di produrre una “grammatica” della canzone ben riconoscibile (troncamenti; rime baciate; accentazione, monosillabi e “zeppe” in fine di verso; frasi nominali, inversioni sintattiche, figure retoriche, aspetti metrici, eccetera): un vero e proprio “italiano per musica”. Con la canzone d’autore, a partire dagli anni Sessanta, e poi indie, indipendente, lo schema si è fatto più libero, grazie anche al confronto da un lato con il parlato, dall’altro con la lingua poetica (che rimane comunque “altro”, nella sua autonomia, rispetto al testo canzonettistico privo delle note).
Oggi, con la presa di “potere alla parola”, con l’hip-hop, con il rap e la trap, la dimensione verbale è tornata in primo piano, e la musica svolge, nella maggior parte dei casi, un ruolo meno vistoso, mentre sono balzati in primo il ritmo verbale, la velocità di dizione, il flow, ossia il modo in cui le parole si appoggiano alla musica per creare il sound, la melodia.
Ma è anche vero che la compresenza di generi, evidente nelle scelte “ecumeniche” degli ultimi Festival, come in quelli diretti in un quinquennio da Amadeus, e, sulla sua scia, da Carlo Conti, ha portato a una molteplicità di tendenze linguistiche che rende la kermesse interessante anche per chi segue gli sviluppi della lingua italiana odierna.
La canzone “tipicamente” sanremese è morta, come alcuni dicono? Forse. Il fatto è che Sanremo non è più solo il luogo della canzone “usa e getta”, confezionata solo per il Festival; oggi la canzone festivaliera (dominata dalle major discografiche e da un numero ristretto di autori e produttori che porta non di rado ad una omologazione se non a un appiattimento) è studiata per durare oltre febbraio, magari sino al periodo dei tormentoni estivi, grazie alla cassa di risonanza delle radio, delle piattaforme, dei social; e Sanremo vive una nuova stagione anche tra i giovani, che sembravano spariti dall’orizzonte degli ascolti. Tutto ciò non può non riflettersi sulla valutazione da dare ai brani in gara.
Ma resta viva la curiosità di leggere i testi dal punto di vista linguistico e stilistico e, poi, di ascoltare (e vedere) “che lingua fa” a Sanremo 2025, con l’avvertenza che le “pagelle” assegnate ai testi, in assenza degli altri indispensabili elementi di giudizio, sono per ora soltanto un gioco.
* Lorenzo Coveri ha insegnato come professore ordinario Linguistica italiana all'Università di Genova ed è accademico corrispondente dell'Accademia della Crusca. I suoi temi principali di ricerca riguardano la dialettologia ligure e la sociolinguistica dell'italiano contemporaneo, con particolare attenzione alla comunicazione giovanile e alla linguistica dei media (cinema, radiotelevisione, canzone). Da anni si occupa dell'analisi linguistica dei testi delle canzoni del Festival di Sanremo.
Di Lorenzo Coveri*