Milano, 24/12/2015.
Il viaggiatore che lascia Milano e dintorni puntando verso la Liguria percorre un’autostrada che, per qualche decina di chilometri, taglia con una linea quasi retta una pianura uniforme e inesorabile. Qualche tratto sopraelevato gli permette di spingere lo sguardo più lontano, oltre le fabbriche, le cascine, i pioppeti e le marcite. Il nastro d’argento del Ticino tra le ghiaie chiare di Bereguardo è il primo timido segno di natura.
A breve distanza dal casello, il ponte di chiatte, uno dei pochi rimasti in Italia, rimanda ad un tempo lontanissimo dal mondo dell’A7. Risale alla seconda metà del Trecento, quando i Visconti, signori di Milano, fecero costruire il piccolo porto sul fiume. Tutta la zona, allora lievemente ondulata e coperta da un fitto manto arboreo, offriva panorami lunghi – un bel riguardo – sulla loro estesa riserva di caccia. Oggi il ponte è percorso da una strada provinciale e collega Bereguardo a Zerbolò. Proprio su questo paesino, ai tempi feudo dei milanesi Beccaria e ora dimora di una colonia stanziale di cicogne bianche, l’A7 passa veloce al km 27.
Chi guida verso la Liguria non conosce certo Zerbolò, forse
neanche la Lomellina, che è il nome di questa regione
storico-geografica della Lombardia. Il tempo
dell’autostrada esclude i piccoli paesi e i borghi,
cancellando il rapporto tra vie e insediamenti esistente nel Basso
Medioevo, quando le strade o la navigazione fluviale determinavano
la nascita dei centri abitati. L’autostrada è la prima strada
pensata senza case lungo i suoi lati, realizzata per impedire
l’accesso diretto agli edifici. L’autostrada non è come il treno,
scansa anche le città e tira dritto. Non innerva il territorio, lo
svuota e lo allontana.
A volte arrivare in fretta è importante, ma non perdere
tempo significa perdere qualcos’altro.
Questo libro racconta cos’è questo altro, descrive un mondo di strade minori e silenziose che attraversano paesini, abbracciano colline, salgono e scendono, senza infilarsi in tun-nel o montare su viadotti. Strade silvane che accarezzano il territorio raccontando la storia del nostro Paese e che però non sono raccontate nelle guide turistiche. Strade in cui a volte l’unico rumore è la memoria di un mondo quasi dimenticato.
La Val Borbera inizia subito fuori dal casello, senza lasciarmi il tempo di cercarla: dopo i paesi di Vignole, Borghetto e poi Persi, adagiati su una campagna agricola, il paesaggio cambia decisamente e si fa severo. Mi accoglie una forra inaspettata: eccolo là sotto, il Borbera, acqua smeraldo tra pareti di puddinga grigia alte e scoscese. Rocce simili le ho già viste a Savignone e in Val Vobbia, dove racchiudono un castello: sono un conglomerato di ciottoli del Terziario cementati da malta calcarea e il loro aspetto mi inquieta ogni volta. Qui mi trovo alle strette del Pertuso che fino a tutto l’Ottocento hanno diviso la valle in una parte bassa, vicina alla valle Scrivia, e in una parte alta, isolata tra valloni e creste erbose e collegata alla costa ligure attraverso millenari percorsi di merci e uomini. Solo nel secolo scorso una strada carrabile ha ricongiunto due mondi che, però, ancora oggi sembrano lontani.
Supero Cantalupo, Albera e Cabella, tutti liguri nel nome, ma di fatto alessandrini dal 1859 per il decreto dell’alessandrino ministro degli Interni Urbano Rattazzi, che ridisegnò la geografia di queste terre a vantaggio della provincia piemontese. Poi inizio a salire. Nella parte mediana la valle si apre a ventaglio e la strada si biforca, verso Capanne di Còsola a sinistra e per Capanne di Carrega a destra, seguendo il corso di un affluente del Borbera.
Ignoro il bivio per Cartasegna che nasconde nel suo il nome di Cartagine, a memoria del passaggio di Annibale nel tempo che fu. Ed ecco Carrega, paese lungo una via carraia, come racconta il toponimo. Uno dei comuni meno popolati d’Italia, neanche cento abitanti. Credevo di trovarci una comunità new age, attratta qui dall’occasione di comprare le vecchie case disabitate al prezzo di un euro, con l’impegno di risistemarle: avevo letto questa notizia su Internet, ma un cacciatore del luogo la smentisce e dice di non aver mai visto nessuno di fuori. Peccato, perché mi sembra un posto adatto per attendere l’Era del l’Acquario.
Lascio la macchina e cammino verso Magioncalda, uno dei nomi più belli dell’Appennino e antica grangia dell’abbazia di Rivalta Scrivia, nota per la sua ricchezza agricola. È un minuscolo paese a grappolo, circondato di boschi e inclinato verso la chiesa. La cima dell’Antola spira aria fresca e profumata in un silenzio spaventoso. Ritorno alla guida e con una strada larga e sicura, tra una vegetazione sempre più d’alta quota, conquisto in pochi tornanti le Capanne di Carrega. Trovo prati immensi ricoperti di narcisi e un’osteria con sedie colorate, una diversa dall’altra. Il locale è caldo, una piccola stufa tira a più non posso, e c’è una pasta con i primi funghi dell’anno. Un pannello all’esterno racconta che in questa stessa osteria nel 1944 si insediò la divisione partigiana Cichero e che il 23 settembre di quell’anno si tenne la storica riunione che riorganizzò le forze comprese tra il Turchino e la Val Staffora. L’Appennino è un continuo teatro di guerra.
Raggiungo lo spartiacque e Casa del Romano, con l’osservatorio astronomico, ed entro in Liguria. Eccola la grande montagna dei genovesi, l’Antola dei fiori e delle erbe officinali e aromatiche con cui curare ogni malanno, l’Antola crocevia di antiche mulattiere e di scambi commerciali e culturali, generatrice di valli e vallette, e crinale erboso tra il bacino dello Scrivia e quello del Trebbia. Osservo l’Atlante e noto che questi due fiumi hanno un comportamento curioso: nascono dalle pendici meridionali, a poca distanza tra loro e vicini al Mar Ligure, ma lo snobbano e compiono un lungo giro, uno a ovest della montagna, l’altro a est, per raggiungere il Po e finire nell’Adriatico.
Da Casa del Romano non sono neanche due ore di cammino per la vetta dell’Antola, ma dal Piemonte stanno arrivando nuvole color dell’acciaio e all’osteria mi hanno raccomandato di scegliere una giornata tersa, per godere dello spettacolo di Corsica e Arcipelago Toscano che galleggiano sul mare. Lascio che la macchina mi porti tranquillamente verso Propata, regalandomi una nuova prospettiva lunga sul Lago del Brugneto. Sfilano Bavastrelli, Bavastri e Garaventa, quante vite ci vogliono per conoscere tutti i paesi dell’Appennino?
E così arrivo a Torriglia, ripetendo tra me e me il verso più noto di quella canzone popolare che parla di una bella ragazza, desiderata da tutti, ma poi rimasta signorina. Chiedo informazioni in un bar, sono tante le possibili belle a cui allude la filastrocca, tante e nessuna. O forse è solo una rima generata dal nome. Più delle altre si adatta alla storia reale la figura di una Celestina, amante di un Fieschi, signore di Torriglia, che pagò il prezzo dell’esilio imposto alla famiglia di lui per la fallita congiura contro i Doria. Dopo il 1547, con i suoi parenti, dovette lasciare il castello – eccolo lassù, diroccato – e Celestina restò sola, rifiutando i successivi pretendenti.
Torriglia, incassata tra falde boscose, mi lascia addosso una lieve malinconia, non per le sorti della bella, ma perché il mio lungo viaggio, su e giù dai monti, sta per finire. Infatti dopo Lacciola la strada appartiene alla modernità, non racconta storie e regala pochi scorci. In mezz’ora sono al casello di Busalla, con mille immagini stampate sugli occhi.
Lorenza Russo (C) Il Melangolo