Guido Harari, alla Fabbrica del Vapore 50 anni di fotografie e racconti: info, orari e biglietti della mostra Incontri

Quali sensazioni e ricordi si porta dietro dopo aver scattato un ritratto? C’è un elemento che ritorna costantemente?

«Conosco un fotografo inglese che diceva: Io, quando faccio una foto a un personaggio, entro nell’ordine dell’idea che ho solo quell’occasione e non lo rivedrò mai più, per cui mi gioco tutte le carte. Poi non voglio diventare amico di questo personaggio. Non lo voglio più vedere. Ho fatto il mio lavoro. Per me è esattamente l’opposto: io voglio diventare amico di quel personaggio, anche se questo può voler dire mettere da parte la macchina fotografica per un po’. Poi quando il rapporto ovviamente si arricchisce, scatta il gioco della fotografia. Per me la chiave è sempre stata la curiosità di conoscere innanzi tutto i musicisti, che sono stati i miei oggetti di affezione fin da quando ero ragazzo, e poi altri personaggi, scrittori, designer e, infine, ora, le persone comuni. Viviamo in un’epoca assurda, divisiva, distruttiva, autodistruttiva, e credo che le persone comuni - che io chiamo persone reali - abbiano delle esperienze minime che però sono quelle di tutti noi, che vengono totalmente ignorate e trascurate dai media e dai social. Voglio entrare in quelle pieghe e, come dicevo, per incontrare anche me stesso. Io nasco come timido e attraverso la fotografia ho esorcizzato la mia timidezza, mettendomi nei panni di chi è timido come me».

In che modo oggi è possibile ritrarre e raccontare una persona?

«Oggi tutti sono succubi dei selfie. Chi ha cominciato a maneggiare bene il cellulare, ha un solo piano di lettura di sé che è peggio del personaggio famoso che sa come mettersi e atteggiarsi per avere il massimo risultato. Lì c’è una mono-lettura: tu non sai come ti vede l’altro, e non ti interessa. Tu ti metti sempre in quella posa, in quell’angolazione, in quella distanza e questo crea un distacco dal resto del mondo: non è più un dialogo, ma un monologo. È possibile fare dei ritratti oggi? Sì, è possibile purché si riporti l’altro sul terreno di un rapporto. Il tempo di una fotografia è un tempo speso insieme, non è il soggetto che si mette a disposizione del fotografo e gli regala una superficie. Il tempo di una fotografia - o di un ritratto, nella fattispecie - è un tempo di incontro, di ricerca di un terreno comune dove si attivano meccanismi di cui non siamo ben sicuri. Ma è proprio lì, il fascino: b isogna che chi fotografa, o chi voglia iniziare a fotografare, ritratti si metta in questa dimensione di ricercare l’incontro con l’altro, togliendolo da quello spazio di auto-lettura a un solo livello».

Di Riccardo Motta

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