L’esito finale di quegli incontri carbonari, celati dalle balze, i pizzi e i nastri di tulle della casa della Fata, sarà l’attentato a Pinochet del settembre 1986, destinato, nonostante il fallimento, ad aprire una crepa profonda nella dittatura. Nell’appassionato, straziante passo a due tra la Fata e Carlos prende forma, proprio lì dove c’erano solo nostalgici vagheggiamenti, un’aurorale coscienza politica e dove, invece, quest’ultima regnava indiscussa fiorisce, timida, un’educazione sentimentale.
Il passo a due si fa quadriglia, intrecciandosi alle vicende del dittatore e di Doña Lucia. Pinochet, assillato dalla moglie petulante e logorroica, tormentato da incubi d’infanzia, in una trama onirica che attraversa tutto il racconto, tra allucinazioni e risvegli, va e viene dal proprio retiro di Cajón del Maipo, che domina Santiago dall’alto. Finché un giorno, lungo la strada rovente che scende verso la capitale, il suo cammino si incrocia drammaticamente con quello di Carlos.
Intorno, fluttua un caleidoscopio di personaggi: le amiche della Fata: la Lupe, la Rana; le ricche clienti, come Doña Catita, mogli di generali asserragliate in un’altra Santiago, che la Fata può solo sbirciare dai finestrini dell’autobus quando si reca a consegnare le tovaglie ricamate su commissione; Laura, la compagna di università (e di lotta) di Carlos; la radio, vero e proprio personaggio più che semplice paesaggio sonoro. Ho paura torero, infatti, è anche un racconto-canzone. Il mosaico di melodie, strofe, ritornelli leggeri che risuonano dalla radio amplifica il dirompente, viscerale afflato popolare che lega l’autore, Pedro Lemebel, al popolo cileno, con la forza di chi è da sempre vissuto ai margini, come rappresentante di una minoranza etnica, i Mapuche, come omosessuale e come travestito.
oppure