La Grande Madre mette in mostra i poteri delle donne

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Milano, 25/08/2015.

La Grande Madre è una delle mostre più attese dell'anno: allestita nelle sale del piano nobile di Palazzo Reale dal 26 agosto al 15 novembre 2015, a cura di Massimiliano Gioni, promossa da Comune di Milano | Cultura, ideata e prodotta dalla Fondazione Nicola Trussardi insieme a Palazzo Reale per ExpoinCittà 2015, è senza dubbio tra le iniziative artistiche più innovative del panorama milanese.

139 artisti, più di 400 opere in 29 sale: questi i numeri della mostra, definita dal direttore di Palazzo Reale Domenico Piraina «un itinerario verso la comprensione della femminilità, del suo potere negato e riaffermato nel Novecento». Come negli anni Ottanta il collettivo fondato a Palazzo Reale L’altra metà dell’Avanguardia aveva segnato un punto storico nel progresso delle avanguardie femminili, profetizza poi Piraina, «così La Grande Madre rappresenterà un evento di pari gloria anche dal punto di vista internazionale».

«Quello della maternità è un tema arbitrario, ma allo stesso tempo universale ed imprescindibile da qualsiasi argomento artistico», commenta il curatore Massimiliano Gioni, in diretta Skype da New York, felice e sconvolto da un avvenimento non trascurabile: ironia della sorte, da poche ore è venuto alla luce suo figlio. Gioni spiega come l’indagine sull’origine sia, filosoficamente e artisticamente, ciò che per ognuno di noi rappresenta «l’esperienza di essere nati», quell’immemorabile vissuto di essere stati dentro il calore materno e di aver condiviso la vita con l’entità unica e indescrivibile della madre. Così i miti fondativi, le costruzioni della morale, l’archeologia e l’arte tutte insieme derivano, come la vita delle persone che le hanno create, da una matrice femminile che accomuna le esistenze di tutti.

Poiché però siamo esseri umani, e non idee, quello della maternità è soprattutto un fenomeno storico: non a caso, ognuna delle 29 sale ripercorre un momento storico o una «storia della rappresentazione del femminile» nell’arte: dalle dee-madri paleolitiche alle Madonne del cristianesimo, da Giocasta vista da Freud alle cattive ragazze del post-femminismo. Tre quarti degli artisti sono ovviamente donne, dalla intima e mitologica Frida Kahlo alla surreale e matronesca Leonor Fini; dalla provocazione viscerale di Nari Ward, che riempie una sala di passeggini dismessi (Amazing Grace, 1993) alla purezza delle installazioni di Marisa Merz.

Ovviamente maternità significa anche (e soprattutto) rapporto filiale e sessuale, ben rappresentato anche dall’ala maschile della mostra: non mancano un grande uovo rosa, simbolo dello spazio primordiale per Lucio Fontana (La fine di Dio, 1963), né i ritratti della madre di Umberto Boccioni (Studio di testa-La madre, 1912), e nemmeno la venere eterea e ed esplosiva di Jeff Koons (Balloon Venus, 2008-2012).

Insomma, quello su cui Gioni insiste è che l’esperienza della maternità sia una chiave fondamentale per interpretare molte altre realtà, come quella dei rapporti di potere, dei sistemi di pensiero, del mondo del lavoro e di quello intellettuale. Un’interpretazione che sia spontanea e legata alle radici dell’esistenza come lo è il rapporto tra una creatura e ciò che l’ha generato.

Già alla quarta sala, mi accorgo che le parole del curatore non sono vane e insensate. La sensazione è quella di essere dentro un labirintico grembo in cui si scivola da visioni amniotiche come quelle di Mina Loy, Marisa Mori e Giannina Censi; a rappresentazioni sanguigne come le fotografie del mondo gay-lesbo di Catherine Opie e le tele semplici e aggressive di Marlène Dumas. Sembra in un certo senso di attraversare una nuova storiografia, la storia di un mondo raccontata da (e attraverso) donne che sono state dadaiste, madri, sorelle, futuriste, operaie, rivoluzionarie, spazialiste e amanti esattamente come gli uomini, ma percorrendo un sentiero più silenzioso e sofferto.

La gente intorno a me si sofferma ad ammirare la sedia mammifera di Sarah Lucas (Mumum, 2012), snobba l’unica opera di Frida Kahlo (troppo mainstream?), studia la Phallic Girl di Yayoi Kusama e si esalta davanti al paradiso uterino di Ida Aplleboorg (Monalisa, 2009). Giunto alla ventinovesima sala, scelgo di tornare indietro e, incrociando altri volti intenti a interpretare le opere in mostra, d'improvviso mi sovviene il senso nascosto della Grande Madre: ogni volta che cediamo al desiderio insaziabile di autodifferenziarci, desiderio che è uno dei motori dell’arte, non possiamo che ricadere in quella placenta indistinta che ci ricorda di essere generati da una stessa cultura, figli di una stessa Grande Madre dipinta nei quadri e scritta nei libri.

Di Lorenzo Barberis

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