Milano, 14/06/2018.
I locali che lo circondano e puntellano hanno trasformato in Milano da bere quella che era la zona operaia del capoluogo lombardo. Ne resta memoria nel vico dei Lavandai, con i suoi rivi a cascata per lavare i panni. Se il Naviglio della Martesana è costeggiato da signorili residenze, anche gli altri Navigli Milanesi meritano una visita dei monumenti e luoghi di storia e meraviglia artistica, in particolare chiese che a raggio si diramano dalla cattedrale madre del Duomo.
Tante opere testimoniano l'uso del Naviglio come sito di lavoro per le lavandaie. Nel giugno del 1959, alla galleria Salvetti di via Broletto, la Mostra commemorativa del Naviglio dedicata a Gianni Maimeri espone un olio su tavola con due lavandaie a lavoro: Maimeri con i suoi notturni ci introduce anche alla attuale natura del Naviglio Grande, polo di aggregazione grazie ai tanti locali che lo animano. Negli anni Trenta nei locali risuonava la musica di Schubert, Beethoven, Mozart, Bach - «in ordine di comprensione», specifica Raffaele De Grada. Il Naviglio Grande risale al primo secolo dell'anno Mille, quando il sistema di difesa cittadino poteva contare su mura, torri, porte e pusterle. Una volta che questi sistemi furono edificati, venne realizzata anche la chiusa collocata tra Porta Ticinese e la pusterla di Sant'Eufemia, necessaria a regolare le acque del fossato. All'ombra della porta è la Darsena, oggi completamente riqualificata in occasione di Expo 2015. Malgrado importanti ritrovamenti archeologici, il vecchio porto di Milano è oggi un bagnasciuga per milanesi e turisti, una passeggiata affollatissima costellata da strutture verdone sotto le quali si affiancano gli esercizi commerciali, laddove un tempo c'era un parcheggio che il sabato lasciava il posto alla Fiera di Sinigaglia. Insomma, dal recente restauro, dell'originaria funzione portuale della Darsena non c'è traccia.
L'itinerario per il Naviglio Grande inizia proprio da Porta Ticinese - ex porta Martinengo e Porta Cicca per tutti i milanesi, ossia piccola dall'espressione spagnola chica - situata di fronte alla Darsena e costruita da Luigi Cagnola tra il 1801 e il 1813. A Porta Ticinese, la Darsena non ha più nulla che ricordi il traffico dei barconi, se non quelli che ora fanno da dehors di ristoranti di grido. Oltrepassata la porta, difficile notarlo per l’imponente presenza al fianco della facciata a capanna della basilica di sant’Eustorgio che, con gli ampi spioventi schiaccia lo sguardo verso il basso, c'è un un frate con la testa spaccata da roncola: per ammirarlo basta guardare in alto a destra, in cima a una colonna che corre altissima verso il cielo. Molti credono che si tratti di San Domenico, padre dell'ordine a lui intitolato, quello che l'iconografia veste in bianco e nero e spacca la pietra scolpita con un coltello piantato in mezzo alla testa: invece è San Pietro da Verona, morto per roncola il 6 aprile 1252 quando, in viaggio da Como verso Milano, si fermò con Domenico e altri due domenicani a fare colazione prima di proseguire per la strada. Pietro fu sepolto nel cimitero dei Martiri, vicino al convento di sant’Eustorgio. Venne da qui spostato dentro alla basilica di Sant’Eustorgio all’interno di un’arca trecentesca, opera dello scultore pisano Giovanni di Balduccio.
Il giorno della morte di Pietro, a Milano si diffusero voci di miracoli e ovunque si innalzarono altari dedicati al santo, il cui culto si celebra ancora oggi. L’arcivescovo di allora, Giovanni Visconti, commise un errore: «depose in alto» la testa decollata del santo per mantenerla a suo stretto contatto, in casa. Da allora il prelato cominciò inspiegabilmente ad essere afflitto da gravi e continue emicranie che lo portarono allo stremo delle forze: i medici erano impotenti. Ma, quando Visconti intuì che il santo da Verona non aveva gradito la decollazione e fece deporre la testa insieme al corpo, il mal di testa svanì e il santo venne proclamato protettore delle emicranie. Andà a pestà el côo in Sant’Ustorg, cioè Vai a picchiare la testa in Sant’Eustorgio, si dice tuttora tra i milanesi. E ancora oggi i fedeli sono convinti che picchiare il 6 aprile la testa del martire salvi dal mal di testa per tutto l’anno.
Sant'Eustorgio si apre sulla piazza antistante lasciando un senso di immensa apertura che, per dirla alla Giacomo Leopardi lascia intuire «interminati/spazi di là da quella, e sovrumani/silenzi, e profondissima quiete». All'interno della basilica, il rosso della facciata torna nei costoloni che disegnano le volte a crociera e cede al bianco e nero di alcuni dettagli delle cappelle delle navate laterali, divise dalla centrale da enormi colonne a fascio. Il segreto della Trinità è proposto dal numero tre delle navate, come delle finestre e di alcune fila di arcate. La cappella Portinari trascina lo sguardo del visitatore verso l'alto sotto la guida degli angeli piumati, plastici e danzanti sul tamburo, e dei domenicani dell'arca di San Pietro martire, tutti con il naso all'insù. Il Rinascimento lombardo, diverso per le influenze dal Nord Europa rispetto a quello più razionale toscano, pone una maggiore attenzione al dettaglio realistico e gustoso. Basta guardare la Madonna con il bambino entrambi cornuti nell'episodio del Miracolo della falsa Madonna: in realtà la madre di Cristo è il demonio che prova a tentare san Pietro. Ma il diavolo sbaglia e non nasconde le proprie corna, finendo per essere scoperto dal santo grazie all'ostia consacrata che tiene in mano. Tra i chiostri di Sant'Eustorgio è il Museo Diocesano.
L'itinerario da questa parte del Naviglio Grande prosegue fino alla basilica di Sant'Ambrogio, introdotta da pusterla anch'essa e intitolata al patrono della città. Gli unici monumenti visibili dell'antico anello delle acque della città rimangono il vicolo dei Lavandai con vorticose acque che centrifugavano i panni, e la Darsena, cui giunge il Naviglio Grande e da cui si diparte il Pavese. Il Naviglio Grande, realizzato tra il 1157 e il 1179 in origine per scopi difensivi, presto divenne importante canale di trasporto merci: il Duomo di Milano passò di qui pezzo per pezzo. Dal lato opposto, ossia nel suo ultimo tratto milanese, sulle acque del canale si specchiano ancora Santa Maria delle Grazie al Naviglio e San Cristoforo sul Naviglio. La prima sorge sulla riva sinistra del tratto terminale del Naviglio Grande, a circa 300 metri dalla confluenza di quest'ultimo nella Darsena di Milano; la facciata a salienti non è finita, ma la struttura muraria a vista lascia immaginare chiaramente come doveva essere. San Cristoforo sul Naviglio ha pianta doppia, in quanto costruita in tempi diversi: la chiesa a sinistra è originaria di età comunale, quella di destra fu invece costruita agli inizi del Quattrocento per voto popolare, passata la peste, e venne nobilitata a cappella ducale da Gian Galeazzo Visconti. Qui i barcaioli e i pellegrini facevano sosta di ringraziamento al santo protettore che era dipinto a quel tempo sulla facciata come una gigantografia, di cui oggi restano soltanto tracce di colore. Si faceva così a quei tempi: erano affrescati non solo gli interni, ma anche gli esterni. San Cristoforo è affrescato anche all'interno sulla parete laterale della cappella viscontiana, e tanti sono gli affreschi ancora visibili: quelli dell'arco trionfale risalgono ai recenti restauri del 2016/2017.
Il Naviglio Grande esprime tutta la sua fascinazione nel tratto non milanese: 30 chilometri di rive boschive, immerse nel silenzio magico della natura. L'alzaia, vietata ai veicoli a motore, si può percorrere a piedi, o meglio ancora in bicicletta (per chi è capace anche in canoa o kayak): per i meno allenati è possibile raggiungere punti di partenza o d'approdo e di lì proseguire a piedi o su due ruote.
Nei comuni limitrofi a Milano dove corre il Naviglio Grande si affacciano le fastose e decadenti dimore patrizie, che ricordano l'aspetto residenziale del Naviglio della Martesana, dove i milanesi possedevano la seconda casa. A Gaggiano si incontra la prima villa monumentale, chiamata Palazzo Marino perché dimora di Tommaso Marino, spregiudicato finanziere genovese del Cinquecento, da cui discenderà l'omonimo Tommaso Marino che chiamò Galeazzo Alessi per erigere in piazza della Scala a Milano il ben più noto e milanese Palazzo Marino. Quello di Gaggiano ha pianta a U con il corpo centrale molto profondo, sulla fronte posteriore si innesta un’altra ala che si prolunga in un corpo più basso: una pianta irregolare che è frutto di diverse trasformazioni. Come ogni villa di grande fascinazione, non manca una leggenda sull'edificio abitato dai fantasmi: si narra, infatti, che il Cunt Marin, farabutto e libertino senza scrupoli, esoso esattore delle gabelle statali, tra le sue numerose avventure d’amore, s’imbatté, quando già era avanti negli anni, nella giovane e bellissima Ara, figlia del nobile veneziano Cornaro (Corner), che volle sposare a forza; e poiché la virtuosa donna tentava con ogni mezzo d’impedirgli le solite malefatte, prima la fece imprigionare in questo suo palazzo e poi le tese un trabocchetto mortale trucidandola. Ara fu sepolta in un angolo del giardino, ma mai abbandonò la casa che ancora infesta. Giovanni Ventura vi scrisse un dramma in tre atti dal titolo Ara bell'ara discesa Cornara ossia il rarredimento del conte Tommaso Marino.
La Casa Camurati sembra gemella per la torretta merlata della Villa Pino sul Naviglio della Martesana. Si specchia poco più avanti sulle acque del Naviglio Grande anche la chiesa di Sant'Ivenzio, con facciata barocca del 1573 ocra e bianca, scandita da lesene e ritagliata da quattro nicchie che custodiscono statue: l’interno è decorato da ricchi affreschi e stucchi. Una Madonna del rosario venne infondatamente attribuita a Michelangelo. La torre campanaria, parallela a quella della vicina residenza Camurati, fu progettata dall’ingegner Ercole Turati e risale al 1606.
Superato il ponte nuovo si alza il settecentesco Palazzo Venini Uboldi. Dentro il palazzo del Comune di Gaggiano, al primo piano è esposta la Madonna della Barbattola, donata dai titolari dell'Osteria della Barbattola, dotata di un approdo per la barca che l’oste usava per traghettare i viaggiatori da e per Vermezzo prima che fosse costruito il vicino ponte.
A Castelletto di Abbiategrasso, dove il Naviglio Grande compie un angolo di 90 gradi, la costruzione più ragguardevole è il Palazzo dei Cittadini, nobile famiglia milanese che possedeva qui beni fin dal XV secolo. Sull'angolo dello scomparso Naviglietto, nella medesima località è la casa della regia Camera che, pur non essendo residenza nobile, ne ha i caratteri: era destinata a ospitare il camparo del Naviglio Grande, il commissario, il questore delle acque e le altre autorità preposte all'ispezione periodica del canale.
È nostalgico oggi ripercorrere il Naviglio Grande, specialmente nell'ultimo tratto, dove si affacciano le fastose e decadenti dimore patrizie. Cassinetta fu luogo di villeggiatura di nobilissime famiglie: lo dicono quattro splendide ville di delizie - ossia le case di villeggiatura - dei patrizi, che, insieme con quelle di Robecco, costituiscono il più prezioso patrimonio architettonico del Naviglio Grande. Presso il ponte è situata la più monumentale Villa Visconti Maineri, dall'originario nucleo secentesco; più modeste sono Villa Negri, Villa Beolchi-Kretzlin e Villa Nai. A Robecco, si incontrano Palazzo Gaia Gandini, villa cinquecentesca ottimamente conservata, e Palazzo Archinto, invece ridotto rudere spettrale, minima parte di un ambizioso progetto settecentesco mai portato a termine; mentre a Ponte Vecchio di Magenta sorge Villa Castiglioni.
A Castelletto di Cuggiono - immerso nel Parco del Ticino, fiume da cui il Naviglio Grande pesca le sua acque - domina il grandioso Palazzo Clerici, nato sulle fondamenta di un antico fortilizio. Settecentesca e collocata su un terrazzamento digradante verso il Naviglio Grande, fu una delle ville più lussuose situate sul canale e in tutto il milanese. L'impianto ad H sorge su quello di un'antica casa nobiliare di proprietà della famiglia Crivelli. La scalinata monumentale portava alla zona dell'imbarcadero. Villa Clerici è rimasta alla famiglia fino alla fine dell'Ottocento, ovvero per quasi due secoli, poi è stata trasformata in filanda. Si contano 400 camere 400 finestre, con 200 persone di servizio - dicono - ai tempi d'oro.
Al calar della sera, sulla via del ritorno verso il porto da cui tutto passava, a chi non ama la confusione consigliamo di attraversare sull'altra sponda del Naviglio Grande, quella di Ripa Ticinese, meno affollata di gente e, quindi, di locali e tavolini all'aperto. Tornando verso Milano, ci si può perdere nelle vie limitrofe, dove si affacciano le ultime case di ringhiera, ancora non trasformate in studi o botteghe, e si può respirare ancora l'autenticità originaria e milanese dei navigli. Si può capitare in via Magolfa, per una passeggiata romantica (se non fosse per la roggia spesso ridotta in discarica), dove il culmine della poesia si raggiunge alla casa di Alda Merini, che in queste zone viveva, e il cui volto campeggia in un murale (più volte imbrattato e restaurato). La poetessa che sapeva guardare la zona dove abitava con occhi ancora fanciulleschi e immaginifici, scrisse: «è bellissimo tornare a Milano, di notte. Si potrebbe lasciarla per sempre solo per andare in Paradiso. Ma forse desidererei, anche da lì, la mia casa».