Lo s-concert(o) di una donna invasa dalle voci di dentro, in cerca di una pace che è ormai impossibile da raggiungere, tormentata dai fantasmi del passato.
Tutto è già accaduto, il più terribile degli atti commesso, ogni cosa perduta. Ma Medea continua a rivivere senza sosta il fatidico giorno che l’ha portata alla pazzia e i personaggi che lo hanno popolato, come se fossero presenze ossessive nella sua testa.
La Medea di questo soliloquio è una donna oltre il dolore, pervasa da quella umanissima disperazione che l’atto orribile dell’assassinio dei propri figli ci impedisce di considerare. E benché sia impossibile da perdonare, è altrettanto impossibile non considerare che ogni essere umano solo, lontano dalla sua cultura, esule in terra straniera che viene ripudiato, che è odiato e al quale sono strappati brutalmente i sogni più grandi, può perdersi e finire in un buio tale da non credere più neppure nell'amore più grande, quello di madre.
Perché Medea è anche e soprattutto la tragedia dell’abbandono, dell’esclusione, dell’esilio. Ed è ancora qua, a ricordarci che in fondo, come ci dice Jaques Lacan, “Medea siamo noi”.